lunedì 6 dicembre 2010

Da Hemingway a Chandler, da Fitzgerald a Faulkner, un viaggio negli anni in cui gli autori «maledetti» incendiavano le pagine col sacro fuoco di un bicchiere

Ramoscelli di menta, lime, rum bianco, ghiaccio tritato e zucchero di canna: tra tutti, ed erano innumerevoli, Hemingway preferiva il mojito, si sa. Basta fare un giretto nei suoi luoghi d’elezione, all’Avana, per averne la conferma. Al Floridita, il bar-trappola per turisti dal daiquiri più caro del mondo, che espone una statua di Hemingway a grandezza naturale alla fine del bancone. O alla Bodeguita del Medio, quel caffè giustamente rozzo indicato come la casa del mojito, dove non soltanto si abbeverava Hemingway, ma Brigitte Bardot, Nat King Cole, Jimmy Durante, Errol Flynn.

Sin dagli esordi quel che caratterizzò William Faulkner è che, a differenza di molti scrittori, bevve parecchio sin dall’inizio, mentre scriveva. Si giustificava dicendo che siccome scriveva soprattutto di notte, era inevitabile tenersi un whisky accanto. «Non esiste niente che un buon whisky non possa curare». E diceva sul serio. Così a Hollywood arrivò a una riunione di sceneggiatura per “Le vie della gloria” di Howard Hawks (1936) in compagnia di un inconfondibile sacchetto di carta marrone. Nell’aprire la bottiglia si tagliò profondamente un dito.
 Ma nemmeno questo lo fermò: si corazzò con tutta la carta che trovò nel cestino e continuò a bere, tamponando il sangue. Il suo cocktail preferito? Mint julep: menta, zucchero di canna e bourbon, ad alcuni piace anche con l’aggiunta di soda. E che le foglie di menta fossero considerate «una specie di medicina» ai primi dell'Ottocento, non tragga in inganno:

non tutto quel che cura Faulkner può curare noi.

«Sto bevendo tè caldo e non combino un accidente»: certo le scrittrici ci vanno più leggere con le dichiarazioni pro-cocktail, ma alla fine sanno bene come lasciarsi andare. Carson McCullers ad esempio amava il tè, certo, ma un tè particolare: il Long Island Iced Tea. Gin, vodka, rum, cointreau, succo di limone e cola per dare il giusto colorito inoffensivo ne fanno un cocktail potentissimo, ma dall'aspetto totalmente innocuo, del tutto simile a quello di un tè freddo analcolico. Adatto per bevitori discreti, insomma, perfetto per i lunghi pomeriggi che la Mc Cullers trascorreva alla macchina da scrivere nella famosa colonia per scittori di Yaddo, ma innervato di gradazione perfida, in grado di stendere un principiante al secondo sorso.

Per quanto riguarda Raymond Chandler, con il Gimlet si va a colpo sicuro: due parti di gin e una di succo di lime, serviti in un bicchiere ghiacciato è il cocktail che Philip Marlowe introdusse, con “Il lungo addio”, in tutti i bar d’America: «il primo lento drink della sera in un bar tranquillo: meraviglioso». Anche per Chandler gli aneddoti sull’alcool si sprecano, ma forse il più stupefacente, un «sacrificio» che a Hollywood è divenuto leggenda, è quello legato alla sceneggiatura di “La dalia azzurra” (1946), che venne messo in produzione dalla Paramount prima ancora che Chandler avesse scritto una sola battuta. Dopo due settimane di riprese, il creatore del detective Marlowe non aveva ancora trovato un finale, in preda a un attacco del cosiddetto «blocco dello scrittore». Disse al suo produttore che anche se era un ex alcolista e ricominciare lo avrebbe ucciso, l’unico modo per fargli ritrovare la creatività era un relax totale. E quel relax poteva venire solo dal bicchiere. Ebbe a disposizione sei segretarie, un medico pronto con una riserva di vitamine - quando beveva non mangiava mai - e limousine fuori della porta di casa, per portare sul set le pagine appena prodotte.



«Prima ti fai un drink, poi quel drink si fa un altro drink e alla fine sono i drink a farsi te». Se te lo dicono tuo padre, tua moglie o l’amica preoccupata, sai che noia, ma se ritrovi la frase tra le massime di Francis Scott Fitzgerald, che le notti sapeva come intenerirle un sorso dopo l’altro, il gioco si fa duro e ti vien voglia di capire se tra scrittura e tasso alcolico possa esserci un nesso, o esserci stato. Magari negli Stati Uniti, magari negli anni tra i Venti e i Quaranta del Novecento, l’età dell’oro per i drink. Esserci stato, appunto,perché di quegli scrittori maledetti che incendiavano le pagine col sacro fuoco del bicchiere pare finito il tempo. Al massimo un cocktail, o due. Al massimo, ai party.

Alla conferenza di Teheran, nel 1943, il presidente Franklin Delano Roosevelt introdusse Stalin a uno dei «doni della democrazia americana»: il Martini. Gli chiese se era di suo gradimento. Il dittatore sovietico rispose: «Va bene, ma fa sentire freddo nello stomaco». Nel 1961 fu il turno di Nikita Krusciov, durante un incontro con John Kennedy a Vienna: «È l’arma più potente degli Stati Uniti» osservò il nuovo capo d e l Cremlino.
Con precedenti storici del genere non sorprende che il Martini cocktail abbia ispirato Ian Fleming, che lo ha reso immortale nella versione preferita dall’agente 007: «shaken, not stirred», vale a dire shakerato, non mescolato, così come la variante Vesper Martini Vesper è la prima Bond Girl, l’agente doppia di cui la spia al servizio di Sua Maestà si innamora all’inzio della serie e alla quale dedica galantemente la sua ricetta. Come molti dei personaggi di 007 anche Vesper Lynd aveva tratti presi dalla realtà: Fleming si era ispirato alla contessa polacca Krystyna Skarbek, che durante la seconda guerra mondiale aveva lavorato per l’intelligence britannica con il nome di copertura di Christine Granville e aveva avuto una relazione con lo scrittore inglese.


<<Un paio di cocktail non ti rendono un ubriacone. E nessuna quantità di liquore potrà mai renderti uno scrittore>>

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